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Chico Forti: 25 anni di carcere non bastano!

 Il Tribunale di Verona respinge la libertà condizionale. In Italia, un quarto di secolo dietro le sbarre è un’anomalia.


Dopo venticinque anni dietro le sbarre – fra carceri statunitensi di massima sicurezza e penitenziari italiani – Chico Forti ha visto respinta dal Tribunale di sorveglianza di Verona la richiesta di libertà condizionale. Una decisione che non urla vendetta, ma che suscita interrogativi sul trattamento riservato al suo caso rispetto alla prassi ordinaria nel nostro sistema penale.

Forti, 66 anni, tornato in Italia nel 2024, arrivava con un “credito penale” che molti avrebbero considerato sufficiente, almeno per un percorso verso la libertà condizionale. La sua condotta carceraria, da quanto emerge dalle cronache, non ha riportato problemi tali da squalificarlo. E tuttavia la risposta del tribunale è stata negativa. Ci si può chiedere se, di fronte a un uomo che ha già scontato un quarto di secolo in carcere, la coerenza del sistema giustizia imponga un trattamento diverso?

Negli ordinamenti italiani, chi è condannato all’ergastolo può chiedere la liberazione condizionale solo dopo avere scontato almeno 26 anni di pena, e previo accertamento della condotta e del ravvedimento. Eppure è raro – quasi straordinario – trovare detenuti che restino in carcere per venticinque anni senza poter accedere a benefici intermedi: semilibertà, permessi premio, misure alternative crescenti. I casi in cui un detenuto resta “rinchiuso fino all’ultimo giorno” sono marginali, quasi sempre legati a pene ostative o a gravi profili di recidiva.

La scelta di Verona appare quindi diversa rispetto a quella prassi che altrove il sistema applica senza clamore. Non si tratta di invocare clemenza, né di negare la gravità della condanna. Si tratta di chiedersi se si stia applicando la legge sempre in modo uniforme (uguale per tutti), senza eccezioni “speciali” per questo o quel detenuto. In una nazione in cui l’effettiva espiazione di 25 anni ininterrotti è l’eccezione, suscita effettivamente meraviglia chi si osservi un trattamento apparentemente più severo per Forti.

E badate, non è una polemica sterile e fine a se stessa. È giusto affermare che una giustizia credibile non può concedersi zone grigie in cui la regola sembra sospesa. Se in casi simili – anche di condanne lunghe – si applicano benefici, attenuanti, misure alternative, allora il differente trattamento nel caso Forti chiama spiegazioni forti e non elusive. Il tribunale può respingere la richiesta per ragioni valide, ma il confronto con la prassi nazionale impone che la motivazione sia chiara e coerente.

Il caso Forti, così, rimane un unicum: non solo per la controversia internazionale sul processo americano, ma anche per il rigore con cui lo Stato italiano risponde alle richieste che, sulla carta, appaiono legittime. E quando chi osserva nota una discrepanza, la domanda non è di parte o faziosa ma semplicemente di buon senso: in uno Stato che pretende norme chiare e rigore, è accettabile che un uomo possa essere tenuto “oltre” perché è quell'uomo e non un altro?

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